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Globalizzazione e metamorfosi

La rimodulazione della globalizzazione è un fenomeno complesso e multiforme. Il punto di vista adottato per provare a interpretarla produce letture differenti. Il volume di Pankaj Ghemawat La globalizzazione flessibile. Come affrontare i mercati nell’era delle nuove guerre commerciali, tradotto e pubblicato in Italia dal piccolo editore Post Editori, introduce nel nostro dibattito il taglio della strategia di impresa, in particolare nel profilo della multinazionale.


Ghemawat è professore di management e strategia e dirige il Center for the Globalization of Education and Management alla Stern School of Business della New York University. Ha un punto di vista concreto. Come intellettuale ha una doppia identità. Sviluppa il classico metodo quantitativo. E interviene sul campo. Opera nel consesso delle idee. E si muove nel mercato delle aziende. Sul primo versante, ha elaborato un indice di connettività – il Global Connectedness Index – che monitora i flussi commerciali, i movimenti di capitale e i trasferimenti delle persone. Sul secondo versante, lavora con le imprese. E lo fa dagli anni 90. Dunque, ha osservato – come analista e come consulente – tutta la parabola della globalizzazione: fin dal periodo post caduta del Muro di Berlino segnato dalla egemonia culturale e politica americana e fin dall’ingresso della Cina nel 2001 nella Wto, con il successivo delinearsi di nuove gerarchie basate non più sull’esclusivo predominio occidentale.


Natarajan Chandrasekaran, presidente della conglomerata indiana Tata, scrive a questo proposito nella prefazione del libro: «Incontrai Pankaj per la prima volta nel 2001, quando presentò la sua visione sulla globalizzazione e il contesto per lo sviluppo di strategie alla Tcs-Tata Consultancy Services. Fondata nel 1968, la prima azienda indiana di software, Tcs fa parte del gruppo Tata e ha 371mila dipendenti in 45 Paesi del mondo.


Pankaj divenne un pilastro del nucleo strategico aziendale e la sua capacità di analizzare con imparzialità le questioni e di leggere il futuro dei mercati globali – spesso in contrasto con la retorica prevalente – si rivelò estremamente utile per la crescita dell’azienda».


La cifra che rende questo libro interessante è la prevalenza del processo decisionale pratico sul campo rispetto al contesto generale della evoluzione della globalizzazione. Ghemawat costruisce lo sfondo con le chiavi di lettura classiche: la macroeconomia e la geopolitica, il problema della sicurezza che contempla entrambe, la decostruzione-ricostruzione delle catene globali del valore, la violenta accelerazione imposta dalla pandemia, nella consapevolezza che il Covid – o, meglio, le differenti risposte al virus date dalle società autoritarie come la Cina e dalle democrazie rappresentative occidentali – ha contribuito a mutare il paradigma del nostro tempo.


Il focus della sua attenzione è sul “che cosa fare” per i manager e per gli investitori che controllano le imprese. Un “che cosa fare” naturalmente problematico. Ma che racchiude in sé domande e questioni che, alla fine, toccano chiunque operi in una impresa: multinazionale o a forte radicamento nazionale, grande gruppo con decine di migliaia di addetti o piccola azienda che si insinua aggressivamente nelle nicchie dei mercati internazionali.


Il punto – ricorda Ghemawat – è che da tempo si sono attivati meccanismi di riqualificazione della globalizzazione. Il mutamento della natura di quest’ultima non è una novità. Soprattutto nella testa e nelle strategie dei capiazienda. Scrive l’autore: «Nel maggio 2016 l’allora presidente e amministratore delegato di General Electric, Jeff Immelt, ha invocato un “coraggioso cambio di rotta” verso la localizzazione a fronte del crescente protezionismo. All’inizio del 2017 Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il più grande gestore patrimoniale del mondo, inviò ai suoi collaboratori una nota in cui affermava: “Ho parlato spesso della necessità di essere locali in ogni mercato in cui operiamo. Il contesto attuale lo rende più urgente che mai. Se da un lato dobbiamo operare come “One BlackRock” in tutto il mondo, dall’altro dobbiamo essere tedeschi in Germania, giapponesi in Giappone e messicani in Messico”».


Esiste una tendenza chiara, da poco meno di dieci anni, al superamento del pensiero standard sulla globalizzazione e sulle strategie di impresa. Quindi, quanto sta accadendo oggi è la conseguenza – catalizzata a ritmi parossistici dal Covid e dalla guerra in Ucraina fra la Russia eurasiatica e l’Occidente – di una metamorfosi che la comunità internazionale dei Ceo aveva già iniziato a impostare.


Scrive l’autore: «Per decidere quali strategie perseguire, le imprese multinazionali devono considerare tre archetipi strategici fondamentali che possono utilizzare per creare valore attraverso i confini nazionali e le distanze internazionali. Le ho denominate strategie AAA: adattamento, che implica l’adeguamento alle differenze; aggregazione, che implica l’individuazione di modalità per superarle e sfruttare le economie di scala e di scopo a livello transfrontaliero; arbitraggio, che sfrutta le differenze – come nel caso di un’azienda che si approvvigiona dove i fattori produttivi sono abbondanti e vende dove sono scarsi – invece di considerarle dei vincoli a cui adeguarsi o da superare. L’aggregazione e l’arbitraggio procurano alle multinazionali dei vantaggi diretti rispetto ai competitor locali, mentre l’adattamento ne attenua gli svantaggi, ampliando l’ambito in cui possono attuare con successo l’aggregazione e l’arbitraggio».


Pankaj Ghemawat attribuisce al modello organizzativo e culturale della multinazionale una naturale versatilità ad adattarsi alle nuove forme della globalizzazione, definendo così una alternativa alla visione del “friend-shoring for trade” di Janet Yellen, attuale segretaria al Tesoro della amministrazione americana, secondo la quale per le aziende – prima ancora che per i sistemi economici nel loro complesso – sarà conveniente operare in sinergia e in connubio con altre aziende appartenenti a sfere geopolitiche amiche.


Ghemawat riconosce che il “friend-shoring” è una condizione data. Perché è sotto gli occhi di tutti l’emersione fortissima della componente politica rispetto alla componente economica. Ma assegna, con una fiducia sostanziata dai numeri e dagli esempi, alla multinazionale la capacità di compiere un passo ulteriore, trovando il modus in rebus per operare nel nuovo, difficile, mondo che ci si apre ogni giorno davanti.


di Paolo Bricco

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