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Perché l’Emilia cresce di più? Analisi di un modello vincente (con tutti i possibili rischi)

Il modello emiliano non esiste, evviva il modello emiliano. Perché l’export pro capite dell’Emilia-Romagna batte quello delle altre grandi regioni industrializzate del Paese? Perché le imprese Champions della via Emilia negli ultimi anni sono cresciute, in termini dimensionali, più delle altre? Perché questa regione è stata capace di attrarre talenti tanto da registrare in alcune province saldi positivi del movimento migratorio che neppure Milano riesce ad avere? Perché il tasso di occupazione femminile è superiore alle altre regioni? Perché grandi gruppi multinazionali decidono di localizzare investimenti strategici qui anziché altrove?


È sempre difficile spiegare le ragioni delle eccezioni. Gli storici discutono ancora di perché la prima rivoluzione industriale sia avvenuta proprio in Inghilterra. Il professore Franco Mosconi — docente di Economia industriale all’Università di Parma ed editorialista del Corriere di Bologna e de l’Economia del Corriere — nel suo ultimo libro (Modello Emilia , Post Editori) si è dato un obiettivo ambizioso.


Spiegare le ragioni dell’eccezionalità di quell’economia nata da una strada (la via Emilia) e cresciuta nelle città di piccole medie-dimensioni con le loro università e le loro casse di risparmio per arrivare fino ai Big data del Tecnopolo.


Mosconi ne parlerà questa sera alle 18 a Modena, nella sede di Confindustria Emilia-area centro, con Maurizio Marchesini (presidente di Marchesini group e vicepresidente nazionale di Confindustria), Dario Di Vico e Nicola Saldutti del Corriere della Sera oltre al fondatore di ItalyPost, Filiberto Zovico. La prima questione che l’autore si trova a risolvere è tutt’altro che banale. Ha senso (o no) parlare di modello emiliano? «In verità — scrive Mosconi — la parola modello suscita reazioni contrastanti, e ciò anche all’interno della nostra stessa regione. Coloro che non la condividono pienamente sottolineano l’eccessiva rigidità che emergerebbe dal sostantivo modello».


Però, aggiunge Mosconi «la mia scelta, e non da oggi, è stata e continua a essere quella di utilizzare il sostantivo in questione tenendo conto sia della letteratura esistente (dove la semplificazione emiliano non deve oscurare il rilevante contributo offerto dalla Romagna alle performance della regione), sia – ancor più a monte – del significato proprio del sostantivo». Insomma, il modello come qualcosa da imitare. In questo senso vale la pena utilizzarlo. Ma che cos’è rimasto delle caratteristiche (decentramento produttivo, integrazione sociale e vocazione industriale diffusa) che gli economisti hanno visto come cucite addosso a questo territorio? L’Emilia-Romagna in questi anni, al netto delle performance dei distretti ad altissima specializzazione e dei risultati delle multinazionali tascabili, è riuscita a intercettare investimenti in grado davvero di fare la differenza. L’ultimo caso, quello più evidente, è il nuovo Tecnopolo con gli effetti che il supercalcolo avrà sulle imprese del territorio. Mosconi rifugge dalla tentazione della beatificazione ma ragiona sul modo tipicamente emiliano «di concepire e organizzare il rapporto tra Stato, mercato e comunità (il Terzo pilastro)». La capacità «di condividere, fra una pluralità di attori, obiettivi utili al progresso della comunità. Possiamo chiamarla, in breve, la capacità di tessere reti, tratto caratteristico del modello emiliano, che molto deve alla buona capacità amministrativa delle istituzioni e alla lungimiranza di tutti gli attori economici e sociali». Poi, certo, ci sono diversi fattori di rischio a partire dalla crisi demografica, senza dimenticare, l’aumento delle diseguaglianze e del lavoro povero, la crisi abitativa l’eccessivo provincialismo che in alcuni settori (vedi le Fiere) resta una enorme palla al piede. E poi nessun primato è eterno. Tutto può cambiare, basti pensare al triangolo Milano-Genova-Torino o alla locomotiva veneta. Però per il momento, assicura Mosconi, siamo davvero un modello.

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